martedì 18 settembre 2018


 
 
Capitolo XXIII

 

(trascrizione a cura di Giovanni Lo Presti, Salvatore Salmeri e Massimo Tricamo)

 

I produttori vinicoli milazzesi costretti ad immagazzinare i mosti della produzione 1719 a Pozzo di Gotto, ove gli viene anche imposto il pagamento di un tributo locale Nella vendemmia scorsa del 1719 fatta nella nostra Piana, con tutto che fossero stati slocati gli spagnuoli lasciando le trinciere in abbandono, con tutto che s’avessero sovente fatto a vedere per questa Comarca, non puoterono questi cittadini condur in questa città li vini mustali, tanto per non aver capacità ove ripostarli e nemeno permesero gli paesani della Comarca, particolarmente quei di Puzzo di Gotto, che fossero trasportati in questa città. Perloché la magior parte di detti vini mustali con gravissime spese fu necessario condurli nella città di Puzzo di Gotto, da dove alcuni vendettero detti vini mustali in quella città ed alcuni se li condussero in questa loro Patria. E furono tutti forzati sodisfar la gabella per ogni botte di detti vini mustali a quella città, senza eccettione alcuna. Del che, sentendosi lesi questi paesani, ricorsero a Sua Eccellenza colla rappresentazione che detti vini mustali si repostarono nella città di Puzzo di Gotto per necessità, così volendo quell’abitatori, spalleggiati dalli Spagnuoli, quali giornalmente comparivano in detta loro città. Anzi, pretendevano vendemiarsi tutte le vigne di questa Piana per conto loro proprio per esser beni di rubelli del loro re di Spagna, padrone di questo Regno; e non si devenne a ciò per causa che gli officiali Spagnuoli non consentirono alla loro pretenzione [pretesa, ndr]. E si compiacque Sua Eccellenza spedir ordine per sua Regia Corte Segretaria diretto a questi spettabili signori Giurati che, come suoi delegati, facessero complimento di giustizia sopra la giustificata pretenzione delli cittadini di questa per non pagar sudetta gabella. Avendo seguita tal commissione nel mese di novembre dell’anno scorso 1719 e per depocaggine [dappocaggine, ndr] si trascurò l’esecuzione per tanto tempo. Ma, fattasi la reflessione, si pose in opera la delegazione. E chiamati in giudizio gli Giurati di quella città, con ogni somminissione supplicarono, con la solita scrittura, che fossero almeno costretti quelli padroni delli vini mustali che se li vendettero in quella città a sodisfar detta gabella, poiché molto si lucrarono nella vendita delli loro vini. E che si rest[it]uisse l’esatto da quelle persone le quali da detta città da nuovo si condussero in questa e suo territorio sudetti vini. Al che consentirono questi Spettabili signori Giurati per parerli cosa giustificata. E così si fece l’attitato [scrittura processuale, ndr] conveniente a favore di questi cittadini. Se si volessero descrivere gli crepacori delli Puzzogottesi, per sentirsi molt’increpati contro questa città e suoi abitatori, sarebbe infruttuoso. Nondimeno si possono presupponere da tutti quei che refletterono l’intenzione delli sudetti, nel tempo che speravano dominare dapertutto, e pure questa città (ma restarono defraudati con il loro discredito). Ed allorché credevano aver gionto cogli auspicij degli Spagnuoli nell’auge d’ogni loro contento e grandezza, precipitarono nel più cupo baratro di loro miserie. E puol essere che dovranno soffrire maggiori turbolenze, per non aversi saputo regolare col dovere.

 

3 marzo 1720

Ritorno del capitano milazzese Gioacchino Colonna a Messina, dove attende la famiglia in viaggio da Napoli 3 marzo. Capitò in questa sua città il signor Don Gioachino Colonna, quale da più anni che si retrovava nel Regno di Napoli al servizio dell’Augustissimo Carlo Sesto Imperadore colla carica di capitano, avendosene fuggito da questa sua Patria con altri gentiluomini e suoi congionti nel tempo che dominava questo regno il Re di Spagna, siccome di sopra s’ha narrato. Con tutto che da più giorni s’avesse ritrovato nella città di Messina e sta attendendo la moglie e figli da Napoli a momenti, con volersi retirare in Messina venuta la fameglia.

 

4 marzo 1720

Confermato l’arresto dei tre amministratori comunali di Novara di Sicilia a causa del mancato ritorno del capitano Mercurio Stancanelli 4 marzo. Si riferì da più giorni, [così] come in questo, che gli Spagnuoli s’avessero retirato nella terra della Novara richiesti da quei paesani, per la molta lor inchinazione che portano agli Spagnuoli. Raccontandosi che quel capitano di Stancanella, qual s’avea partito da questa [città] colla plegeria del suo cognato signor Don Francesco Colonna, d’ordine di questo coronello comandante, persistesse carcerato per ordine dell’officiali Spagnuoli per aver venuto in questa [città] cogli Giurati di detta terra. Ma ciò non si credea e detti Giurati esistevano carcerati nel Castello Regio di questa città per non aver retornato sudetto di Stancanella, capitano.

 

6 marzo 1720

Il viceré ordina di esigere a Milazzo il «diritto della meraglia», una decisione che si pone in contrasto coi “privilegi” della città 6 marzo. Da più giorni venne ordine da Sua Eccellenza che s’esigesse il jus [diritto, ndr] della meraglia in questa città per proprio suo conto come Grande Almerante [Ammiraglio, ndr] di questo Regno, conforme nell’altre città mari[t]time d’esso. E con tutto che da questo Regio Secreto s’avessero rappresentato le ragioni di questa città, poiché per molte volte preteso mettersi detta medaglia non si puoté superare [conseguire, ndr], ostando gli privilegij della città [norme giuridiche aventi efficacia esclusivamente nel territorio comunale di Milazzo, ndr] ottenti dagli dominanti nel Regno oltre l’inveterata consuetudine di più secoli. Peronde sedatasi la pretenzione per alcuno breve tempo, nondimeno da nuovo s’emanò l’ordine della sudetta Eccellenza Sua]che si dovesse bandizzare tal officio di vice ammiraglio con liberarsi al più offerente. Se ciò - per esser molto pregiudiziale a tutto questo publico (oltre all’Università), scemandosi nella magior parte il capitale delle sue rendite, specialmente la gabella del pesce annuale di molta centinara d’onze - recasse tribolazione - nel tempo che [tanto più che, ndr] per li gravi danni patiti e sofferti nella presente guerra dovrebbe la città più[t]tosto sollevarsi colla munificenza d’un Dominante Augustissimo, che rendersi dell’intutto calpestrata e dimessa - si lascia nella considerazione di quei che, sentendo tal angustie, faranno quel giudizio che li sarà somministrato dalla savia loro perspicacia e [segue lacuna nella copia, ndr].

 

7 marzo 1720

Muore il barone Bertram Anton von Wachtendonk. Sembra che il  viceré spagnolo marchese di Lede voglia abbandonare la Sicilia insieme alle sue truppe 7 marzo. Capitò in questo porto una nave francese - trasportata dal tempo contrario - per suo ricovero, partita da Trapani. S’attestò che l’armata navale colle truppe tudesche dal giorno che fece la partenza da questa [città] per condursi nella detta città di Trapani abbia dimorato nel viaggio per lo spazio di giorni diece. Come pure che il generale Vuottendon, qual si ritrovava sopra dett’Armata, abbia passato all’altra vita sopra mare un giorno innanzi che pervenne dett’Armata nella sudetta città di Trapani. Tanto che fu trasportato col battello in detta città. Inoltre si publicò che la medema Armata abbia seguito il suo camino più innanzi verso Sciacca. E finalmente che il viceré dei Spagnuoli, il signor marchese de Lede, volesse lasciare il Regno con alcuni patti e convenzioni. Perloché dal signor generale de Mercij s’abbia inviato in Napoli, per farsi consapevole di ciò, il generale Beth, qual governava la flotta Inglese. Se ciò sia vero o bugia non si puoté discernere.

 

8 marzo 1720

I rifornimenti di viveri stentano a riprendere i ritmi antecedenti all’Assedio 8 marzo. Non s’ha più inteso novella alcuna che per queste parti convicine della Comarca si ritrovassero truppe spagnuole. E con tutto ciò non si frequentava come pria innanzi l’assedio delli Spagnuoli il commercio in questa città per tutto questo Regno, ancorché da parti molto lontane, conducendosi per terra e frumenti ed orgi, e legumi e formaggi ed altri viveri consimili. Del che molto nocumento ha recato a questa città, dovendosi comprare dette vettovaglie da quelli che li conducevano o da Napoli o da Calabria per mare, a prezzo molt’esorbitante. Anzi, se alle volte dal Regno si trasportavano detti viveri per esser di poca quantità, pure si compravano di caro prezzo. E la cagione s’attribuiva che non descendevano le redine con simili viveri per timore delle truppe spagnuole, le quali facevano molte scorrerie per quelle strade ove dovevano passare detti viveri. Se pure non fosse stato per la molta affezione di detti Spagnuoli o pure per condurli alli medemi o volontariamente o[ppure] per necessità.

 

9 marzo 1720

In previsione della penuria di pane, gli amministratori comunali provvedono alle scorte 9 marzo. Da più tempo, prevista la scarsezza del pane in questa città dalli spettabili signori Giurati, s’attese con ogni vigilanza a farsi la provisione per più mesi. Tanto che da Messina furono condotte più centinara di salme di detto formento, con aversi comprato molto caro. E così è necessario magnarsi il pane ad onze diece per ogni grana quattro. Ed il peggio si è che sarà necessario consumarsi coll’interesse del publico, quale molto si retrovava angustiato per la scarsezza d’ogni vivere, magnandosi al triplicato, anzi più di quello ch’innanzi si consumava.

 

10 marzo 1720

Verso la pace 10 marzo. Si sparsero molte notizie di pace venute da Messina e da Trapani. Volesse Dio che s’effettuasse per consuolo universale di tutto questo Regno. E specialmente da questa povera città.

 

11 marzo 1720

Torna la cavalleria allontanatasi per penuria di foraggi 11 marzo. Vennero in questo Porto due navi ben grosse inglesi cariche di cavalleria, l’una da Napoli e l’altra da Calabria. Di quella [cavalleria] che [in precedenza] s’avea trasportato da questa città per la scarsezza d’orgi e paglia. E si ricoverarono per il maltempo e contrario in questo Porto per valiggiare [veleggiare?] verso l’armata.

 

12 marzo 1720

Contenuti dei trattati di pace descritti in una gazzetta in lingua tedesca 12 marzo. Si frequentarono le notizie della pace. Anzi, s’osservò una gazzetta venuta da Napoli in stampa in idioma tudesca, nella quale si descriveano gli trattati di detta pace concertata bensì da parte della Spagna. Tra l’altri patti, che questo Regno di Sicilia restasse per l’Augustissimo Imperadore con l’assoluto dominio, restando bensì illese le pretenzioni del re di Spagna sopra detto Regno. Secondo, che il Regno della Sardegna restasse per l’Altezza del Duca di Savoia con ogni dominio, contribuitoli da detto Augustissimo Imperadore. Terzo, che il marchese di Lede, venuto da viceré in questo Regno per il Re di Spagna, dovesse slogare unitamente con tutte le sue truppe venute nel Regno da parte del detto Re di Spagna, con aver lo trasporto sino a Spagna. Quarto, che gli inglesi dovessero restituire al Re di Spagna gli vasselli presi nella battaglia seguita nel mare verso la città di Siragosa in quest’isola. Quinto, che pure dalli francesi si restituissero al re di Spagna quelli quattro vasselli da loro tolti nel mar Oceano nel Sud. Sesto, che al medemo Re di Spagna si restituissero cinque porti nella Toscana. Settimo, che dal Papa si restituisse al Duca di Parma il Forte di Castro, con manutenersi illese le sue pretenzioni. Octavo, che l’inglese dovesse restituire tutte le piazze prese, tra l’altre Porto Magone ed altre nell’India al medemo re di Spagna. Nono, che pure si restituissero Piacenza ed altri nella Toscana. E e con altri patti. Si stava perciò con l’aspettativa di più veridiche relazioni.

 

13 marzo 1720

Muore la madre dell’imperatore Carlo VI 13 marzo. Si publicò pure la morte dell’Augustissima Signora Leonora Imperatrice, madre del nostro sovrano regnante. E pure si vociferò la morte intempestiva del primogenito del Re di Spagna, figlio del primo matrimonio. Con aver venuto tutto ciò notiziato in stampa con gazzetta.

 

14 marzo 1720

Il comandante della Piazza ordina ai comuni dell’hinterland la fornitura di legna e fascine per destinarle alle truppe e per eseguire la manutenzione delle trincee all’esterno delle porte 14 [marzo].Per la scarsezza di legna per servizio delle truppe tudesche che resiedono in questa città e[d anche per la penuria] di fascine per farsi il pane di monizione per le medeme truppe, ed inoltre per accomodarsi alcune trinciere fatte nel petto che persistea la guerra coll’assedio delli Spagnuoli (queste fori le porte), da più giorni con ogni accuratezza s’attese da questo signor comandante a far provisioni di detti materiali per tutta questa Comarca, inviandosi più ordini rigorosi a quell’Università per l’appronto sudetto. Anzi, per aversi più distinta notizia di detta robba richiesta, furono alternativamente angariati [vessati, ndr] molti paesani, deputandosi alla porta nominata di Palermo per tener nota di quello entrava di legna e fascine. Concurrendo gli spettabili signori Giurati per adempirsi in tal deputazione l’ordine sudetto.

 

15 marzo 1720

I cadaveri di sette soldati imperiali e di una donna incautamente gettati dentro una cisterna nella chiesa del SS. Salvatore al Borgo. Ne consegue un gravissimo problema igienico-sanitario (fetore insopportabile) cui si pone rimedio 15 [marzo]. La chiesa di Santa Caterina in questa città [odierna Badia benedettina o chiesa del SS. Salvatore al Borgo, ndr], possessa dalli Reverendi Padri Carmelitani Scalzi sotto l’ordine di Santa Teresa (con tutto che s’in’al presente sia stato ospizio con pochi Padri), per esser un vaso molto capace, sempre e dal principio che principiò l’assedio delli Spagnuoli per insino che slogarono da questa Piana, anzi, continuandosi sin al presente, ha servito per quartiero di soldati tudeschi. E benché alcune volte ed interpellativamente fosse stata lasciata libera, pure doppo hanno retornato dette truppe. Ma per aver seguito in esse più volte un’epidemia molt’atroce colla morte di molti, come pure di quelli che alloggiavano nella sudetta chiesa, o per trascuraggine degli officiali o per melensaggine [ottusità, ndr] delli sudetti soldati per non condur molto lontano e fori le porte agli cadaveri per evitar la fatiga, nonostante che abitassero in detta chiesa essi soldati sepellirono sette cadaveri nella sudetta chiesa, non badando allo fetore di detti morti. Quando peraltro per esser molti, e stando affollati senza la polizia dovuta, pure s’udia per tutta la contrada la puzza che v’era in detta chiesa, portando molto nausea a chi per quella strada dovea passare. Anzi, per aver morto tra l’altri sette soldati, nelle quali una femina, tutti eretici, ebbero scrupolo di sotterrarli nelle fosse qual esistavano in detta chiesa per servizio degli fedeli. Gettarono [quindi] tutti sudetti cadaveri d’eretici dentro una gisterna ben grande posta nella medema chiesa. Ma, doppo, seguite le piogge e conservatosi in detta gisterna molt’acqua, si vennero a putrefare gli cadaveri e l’altre immondizie che in quella da più tempo s’aveano da detti soldati gettate. E per aversi lasciata da dette truppe la chiesa, volendosi dal Padre Vicario - qual tenea la cura di detta chiesa e con l’ospizio collaterale ben formato, qual pure ha servito per gli officiali di dette truppe tudesche ed alle volte per alloggio d’alcuni officiali spagnuoli prigionieri - far purificare tutta sudetta chiesa. Ma s’osservò che per nessun modo in quella si puoteva entrare per esser molto sensibile il mal odore. E fu necessario lasciarl’aperta per molti giorni. Anzi, conoscendosi ciò derivare specialmente per causa delli sudetti defonti ripostati in detta gisterna, ma accresciuta la puzza pestilenziale, tanto che s’intendea da molto lontano, fu vuopo ricorrersi a questo signor comandante. Dal quale, fattosi discorso speciale (unitamente colli signori giurati e medici) per togliersi quel pericolo qual puotrebbe recare tal fetore, facilmente puotendosi infettar l’aria e cagionarsi alcun morbo maligno, si determinò primariamente che tutta detta gisterna s’empiesse di terra e doppo serrarsi per non darsi campo d’alcun’infectione col danno universale. E si sovrasedette per farsi meglio riconoscere d’alcuni maestri muratori, tenendosi la sudetta chiesa sempre aperta e di giorno e di notte per togliersi tal fetore.

 

16-20 marzo 1720

Partenza delle due navi inglesi cariche di cavalleria 16 sino a 20 marzo. Accomodatosi il vento col vento prospero, li sudetti due vasselli carichi di cavalleria - come di sopra s’ha espressato - fecero vela per il mar di Ponente per unirsi col nerbo di tutto l’esercito tudesco con alcune truppe savoiarde e di Piemonte.

 

21 marzo 1720

Approda nel Porto di Milazzo un brigantino impegnato nel pattugliamento delle coste 21 marzo.Approdò in questo Porto una saittia [saettia, nave veloce, ndr] o brigantino ben corredato, quale scorrea questi mari così per aversi notizia dell’imbarcazioni che valicavano per questi mari, come pure per discacciare quei corsari nemici che infestavano anche con felughe e consimili barche queste spiagge.

 

22 marzo 1720

Si torna a lavorare alla cisterna della chiesa del SS. Salvatore, dove viene eseguita una perforazione allo scopo di far sgorgare l’acqua della stessa cisterna, interessata dal processo di decomposizione dei cadaveri 22 marzo. Dalli signori Giurati di questa [città] si fece un’assemblea per rimediarsi il fetore che si ritrovava nella chiesa di Santa Caterina, per causa delli cadaveri ripostati in una gisterna posta nella medema chiesa. Ed infatti - convocati diversi maestri muratori con alcun operaij con zappe, pali ed altri strumenti - si determinò che si facesse un buco nel muro di detta chiesa dalla parte ove risiedeva detta gisterna, con scavarsi il pedamento per insino che si retrovasse il fondo di detta gisterna. [Ciò] affinché scorresse tutta quell’acqua che in essa si ritrovava con farsi un fosso un puoco distante da detto buco. E, doppo purgata e scorsa l’acqua di detta gisterna, mettersi in quella [stessa cisterna] quantità di calce in pietra per disfarsi sudetti cadaveri. E serrarsi la bocca di detta gisterna per molto tempo. Anzi, lasciarsi - come prima - entrar in detta gisterna l’acqua piovana per più volte per insin che s’avrebbe purificato dell’intutto detta gisterna. E così, misuratasi l’altezza di detta gisterna e per dove avrebbe incontrato nel suolo a farsi sudetto buco per più facilitazione, tanto più che in quella parte ove esistea la detta gisterna si ritrovava il terreno scozzese [scosceso, ndr] ed un puoco basso, a propozione per un puoco del suolo di detta gisterna, e ciò concertato, si diede principio a farsi detto buco, avendosi travagliato per tutto giorno dalli maestri e lavoranti. E per il susseguente [giorno] con molta fatiga e travaglio, avendosi perforato tutto il muro nel pedamento. E finalmente, sul tardi, scatorì l’acqua da detta gisterna. E dirizzata per un canale, per tal causa fatto nella strada, s’intese un grandissimo puzzore che fu necessario discoccarsi da quella contrada. E pure furono gli operarij assistere all’opra sin al fine. Ed evacuata tutta l’acqua di detta gisterna, dalla bocca d’essa s’osservarono tutti sudetti cadaveri parte macerati e parte intatti. Perloché si gettarono più some di calce in pietra per consumarsi li sudetti cadaveri.

 

23 marzo 1720

Passo indietro nelle trattative di pace 23 marzo. Venne notizia da Napoli, per mezzo di più gazzette, che gli trattati di pace come di sopra espressati fossero stati anteposti da parte del Re di Spagna. E che dall’altre potenze non si condiscese. Volendosi da queste che s’osservasse l’alleanza quatruplice fatta in Londra. E cossì s’ha stato con molta perplessità, con tutto che avessero pria venuto più notizie (che detta pace fosse stata concertata) così da Messina, con più relazioni di lettere, come da Palermo.

 

24 marzo 1720

Si fermano nel Porto tartane cariche di cavalleria imperiale e dirette a Trapani  24 marzo. Aveano passate molte tartane cariche di cavalleria tudesca per conferirsi nel grosso dell’esercito verso le parti di Trapani. E per li venti contrarij insorti sul tardi retornarono, conferendosi alla sfilata col vento di Ponente in questo Porto. Del che resultò molto nocumento a questo publico, con tutto che servisse di proveccio agli venditori, poiché magiormente si redusse la città in più penuria di quella che pria tenea.

 

25-31 marzo 1720

Scarcerati gli amministratori comunali di Novara di Sicilia grazie al versamento degli oneri dovuti all’erario (“tande”) 25 marzo sin a 31 detto. Gli signori giurati della terra di Novara sinora hanno persistito nel Castello. Bensì, sotto li [segue lacuna nella copia, ndr] di detto mese, furono rimessi con aversene retornato nel loro paese. Bensì furono costretti sodisfar tutte le tande dovute, con tutto che avessero da principio confermato d’averle sodisfatte alli Spagnuoli nel tempo che dominavano in quella Comarca. Nondimeno, per essere scarcerati, pagarono per intiero. Ed inoltre si vociferò avere sborzato altra somma. Ma per aversi ciò concordato per mezzo d’alcuni loro confidenti, non si publicò la quantità. Si sebbe bensì aver eccesso la somma.

 

La cavalleria parte per Trapani Con vento da Levante e Scilocco tutte quelle navi e tartane cariche di cavalleria, trattenute in questo Porto per gli venti contrarij, fecero la partenza per retrovar il corpo dell’Armata verso Trapani.

 

Finalmente la pace Così da Messina, come da Palermo, hanno venuto continue relazioni d’aversi fatto la pace tra l’Imperadore ed il Re di Spagna, concorrendo in essa li collegati. E che prima seguirà l’armestizio tra le truppe tudesche e le spagnuole in questo Regno. Ciò con molta brama s’attendea da tutti universalmente.

 

Lettera inoltrata da Vienna conferma l’avvenuta consegna di un memoriale da parte del sacerdote milazzese Antonio Ura, autore delle Dissertationes Epistolares (Tip. D’Amico, Messina 1693) A dì [segue lacuna nella copia, ndr] marzo. Il sacerdote Don Antonio Ura è stato da più mesi agente da questa città [di Milazzo] nella Corte di Vienna, appresso l’Augustissimo Imperadore come Sovrano e Re di questo Regno. E con data [segue lacuna nella copia, ndr] fu rimessa alli signori Giurati di questa [città] una lettera dal signor Don Antonio de Perlas e Vellona, marchese [segue lacuna nella copia, ndr], segretario [segue lacuna nella copia, ndr] di Sua Maestà Cesarea e Cattolica, con avvisar che da detto sacerdote di Ura già s’avea dato il memoriale da questa città per ottenersi le grazie.

 

L’aristocratico Domenico Marcello D’Amico dichiara fedeltà all’imperatore Pure nel mese di luglio scorso 1719 il signor Dottor Don Domenico Marcello D’Amico scrisse a Sua Maestà Cesarea e Cattolica, espressandole con ogni ossequio la sua fedeltà. E non prima di questo giorno ottenne la risposta dal segretario della Maestà Sua con data de’ [segue lacuna nella copia, ndr] da Vienna, del tenor che siegue:

 

«He consignado in manos de Su Magestad la carta de V.a M.d de 2 Iulio pasado y acceptando su celo [zelo, ndr] y las expresiones de fidelitad con que sabe ostentar su reconosimiento y honor, confia Su Magestad el desempeño de su servizio en todo à quello que à V.a M.d le fuere en cargado y cometido por el señor Virrey Duque de Monteleon.

Yo aprezio la aplicazion de V.a M.d  y por ella me hallara siempre siguro con los ofizios de mi facultad à q.to sea de su major satisfazion. Dios guarde â V.a M.d muchos años. Viena y Enero 6 de 1720.

B. las m. de V. M.d [Besa las manos de V.a M.d, ndr]

su mayor servidor

El Marqués de Realpe

S.or D. Marcello Domingo de Amico»